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Crisis Blues. Il racconto della crisi economica e le sue insidie

La piccola fiammiferaia (vedi le conclusioni dell’articolo). Immagine tratta da creationshandmadekawaii

Ci puoi arrivare in diversi modi: per esempio, da un lavoro dipendente (in una delle sue tante varianti) che perdi da un giorno all’altro, o da una libera professione che, dopo anni di crisi via via più pesante, alla fine si ferma completamente. Comunque ci arrivi, la situazione è la stessa: non hai un lavoro e non guadagni un centesimo. Se hai il vantaggio di un po’ di soldi da parte, cominci con qualche rinuncia, tagli le spese superflue e ti cerchi un altro lavoro. Ma non lo trovi. Continua a leggere

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Di che cosa parliamo quando parliamo di lavoro (e di crisi)? Alcune idee sul libro di Stefano Fassina

Il libro "il lavoro prima di tutto" di Stefano Fassina, dal sito dell'editore Donzelli

Del recente libro di Fassina, “Il lavoro prima di tutto. L’economia, la sinistra, i diritti” (Donzelli, 2012, presentazione oggi a Roma alle 17,30) si è detto che costituisce “un tentativo di ripercorrere all’indietro la strada fatta dalla sinistra a partire dal 1989”. La critica, emersa nell’ambito di un dibattito sul quotidiano Europa, ci sembra infondata. Una risposta all’obiezione è stata data dallo stesso autore, ma vorremmo offrire qualche argomento per spiegare perché il giudizio ci sembra avventato (oltre che qualche spunto critico, ma costruttivo).

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Il complesso dell’italiano

foto tratta da firenze.repubblica.it

Nella tragica e complicata vicenda del naufragio della Costa Concordia, la reazione emotiva più forte – tra i commentatori, in rete, nell’opinione pubblica – non è stata il cordoglio per le vittime, né la preoccupazione per un rischio ambientale tuttora gravissimo, ma l’investimento simbolico sulle telefonate tra Gregorio De Falco, comandante della Capitaneria di Livorno, e Francesco Schettino, comandante della nave. Le abbiamo sentite tutti, non avremmo potuto evitarlo neanche volendo. I due uomini sono immediatamente diventati la metafora dell’Italia o, meglio, dell’italiano – Schettino dell’italiano sbruffone e irresponsabile (fa la bravata e poi nega il disastro che ne consegue), De Falco dell’italiano coraggioso e reattivo, che richiama ciascuno alle proprie responsabilità e dà ordini decisi. Il cialtrone e l’eroe. Continua a leggere

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Genova, dieci anni dopo

Sono passati dieci anni dal G8 di Genova. Non si tratta qui di fare del reducismo – oltre che patetico sarebbe anche prematuro – ma di provare a riflettere su alcuni processi che sono iniziati lì, o anche emersi per la prima volta lì, e che stanno venendo a maturazione solo ora. Il trentennio conservatore italiano iniziato con la creazione di TeleMilano58 nel 1978 è stato tante cose cattive, ma dentro di sé ha nutrito anche degli anticorpi, un “futuro migliore che cresce nel presente” come scrivemmo qui. L’eredità di Genova è anche questo e vale la pena iniziare una riflessione seguendo alcuni filoni.

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Buona politica e religione civile

I primi atti del neosindaco milanese Giuliano Pisapia dicono molto della dimensione simbolica che si accompagna alla buona politica. Non stiamo parlando delle scelte in corso circa la formazione della giunta. No, ci riferiamo a due gesti: la visita a Nori Brambilla Pesce, partigiana medaglia d’argento, vedova del leggendario gappista Giovanni Pesce, e la celebrazione della ricorrenza del 2 giugno, “aprendo le porte” di Palazzo Marino per ricevere e salutare i concittadini. Entrambi sono esempi efficaci di come una personalità istituzionale, e un politico di sinistra, possa degnamente essere anche “ministro del culto” di una “religione civile” democratica, fondata su una corretta amministrazione del passato. In un paese dove, come ci ricorda Giovanni De Luna nel recente La Repubblica del dolore (Feltrinelli), il rapporto fra politica e “memoria pubblica” è uno degli specchi in cui si riflette l’immagine della crisi istituzionale e sociale dell’ultimo trentennio.

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150 anni

Ogni mattina accompagno mia figlia alla scuola Fratelli Bandiera. Il mio impegno di amministratrice pubblica mi ha reso più attenta alla topografia della memoria: nomi delle scuole, delle strade, targhe sui muri delle città. Ogni tanto mi capita di rappresentare la Provincia di Roma alle commemorazioni – 8 settembre, via Fani, Porta Pia, la Storta, … – e pensare a quelle vite stroncate, immolate, a chi ha combattuto, ai perché, ai torti e alle ragioni, ai loro affetti, alle famiglie, all’intreccio tra le storie dei tanti e la Storia d’Italia. Continua a leggere

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Da solo non ti salvi

La questione sociale diventa con sempre maggiore evidenza, nel nostro Paese, una questione generazionale. Si riducono le aspettative di benessere delle nuove generazioni, crescono le divaricazioni tra i destini sociali dei giovani e tornano ad essere come un tempo determinanti le eredità familiari e geografiche nello sviluppo della personalità.

Un documento sulla “questione generazionale” in vista della manifestazione della CGIL del 27 novembre. Per aderire scrivere il proprio nome, cognome, età e attività a questa mail: appello27novembre@gmail.com

La crisi e le politiche finalizzate a contrastarne gli effetti hanno drammaticamente peggiorato la condizione giovanile, mettendo a nudo l’insostenibilità del nostro squilibrato modello sociale, perseguito più o meno lucidamente negli ultimi vent’anni con responsabilità diffuse. Un mercato del lavoro duale, che espelle i lavoratori con contratto precario e a termine lasciandoli privi di tutele in tempo di crisi – gli stessi che “sottoimpiega” e precarizza nei momenti di “crescita” -, che mostra una cronica incapacità di impiegare produttivamente la generazione più qualificata della storia della repubblica, e che contribuisce alla crescita della diseguaglianza dei redditi. Chi non può contare sulla protezione familiare è esposto al rischio povertà con livelli allarmanti nel Mezzogiorno, dove si concentrano inoccupazione, precarietà, sottoinquadramento, abusi, nero e economia criminale. Si assiste ad un ritorno della disoccupazione di massa, all’estendersi della sottoccupazione e di quel grave fenomeno di inattività “totale”, per cui si stima che oltre due milioni di giovani italiani non siano inseriti né in un percorso formativo né nel mercato del lavoro.

Gli effetti sul modello di sviluppo sono chiari: si sacrificano le forze più innovative, contribuendo a definire il destino di un paese più iniquo e meno dinamico.  Dove, per la prima volta dal dopoguerra, la condizione dei figli rischia di essere peggiore di quella dei padri.

La precarietà non si riduce alla sola dimensione lavorativa e non si esaurisce nel rapporto tra singolo lavoratore e datore di lavoro, ma investe l’intera sfera delle scelte di vita degli individui. Una precarietà “esistenziale” che mina le potenzialità espressive e creative di ciascuno, alterando persino i tempi “biologici”:  dalla scelta di formare nuove famiglie e famiglie “nuove”, all’affermazione dell’autonomia e della responsabilità individuale.

Basta con “i giovani disposti a tutto” pur di sopravvivere! Adesso siamo disposti a tutto pur di cambiare e migliorare questo Paese! Chiediamo rispetto, dignità, pieni diritti sul lavoro e autonomia dalla famiglia!

Nell’attuale modello di sviluppo, l’etica del lavoro sembra aver perso ogni significato. La nostra generazione è rimasta intrappolata in un sistema dominato dalla logica della cooptazione, impossibile da combattere individualmente. Istituzioni e organizzazioni collettive non sono riuscite a contrastare efficacemente questi modelli,  e spesso hanno finito per assecondarne i meccanismi clientelari e familistici.

D’altra parte, essere dipendenti dalla famiglia d’origine in Italia non significa solamente la possibilità o meno di avere una casa o di accedere a quei servizi che un inefficiente e imperfetto sistema di welfare non e’ in grado di offrire, ma anche che sarà la rete di legami sociali familiari a consentire di trovare un lavoro, bloccando spesso qualsiasi forma di mobilità sociale e anche di creatività e rinnovamento nei più diversi settori economici e  anche nelle aree più ricche del Paese. Un’immobilità che è fattore determinante del declino.

In questa fase di crisi, le forze sociali e collettive devono avere il coraggio e la forza di invertire la rotta, promuovendo la valorizzazione del merito, il rispetto delle regole, le garanzie di trasparenza: mutamenti nel costume necessari per combattere l’ingiustizia sociale e restituire libertà alle nuove generazioni.

Vogliamo affermare una rinnovata etica nei comportamenti pubblici e privati, come base della difesa dei diritti individuali e collettivi, per un diverso modello di sviluppo che comporti nuovi investimenti, nuove scelte economiche e nuove tutele sociali.

Alla nostra generazione è stato detto che formarsi avrebbe comportato maggiore “occupabilità”, più libertà di scegliere tra diversi lavori, maggiore reddito, più possibilità di districarsi in un mercato del lavoro altamente flessibile. La realtà è un’altra: un’intera generazione ha studiato, ha conseguito lauree, specializzazioni, master e dottorati per poi scoprire che il sistema produttivo italiano non riesce ad aprirsi alle nuove competenze, ed essere troppo spesso costretta a cercare altrove le possibilità di una realizzazione individuale all’altezza delle proprie ambizioni e aspettative.

Anche la rigida distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale è ormai fuorviante e superata: è evidente che, nei processi di lavoro, entrambi vengono penalizzati dalla scarsa qualità dell’organizzazione del lavoro e dei beni e servizi prodotti, dalla mancata valorizzazione del lavoratore e delle sue conoscenze, dal basso grado di dialogo sociale.

Oggi la crisi economica si combina con scelte politiche miopi, volte a restringere ulteriormente le opportunità di esercitare professioni intellettuali: da un lato vengono introdotte ulteriori misure corporative per l’accesso alle “professioni protette” e dall’altro si continua a disconoscere l’universo delle “professioni non regolamentate”. Il quadro è drammaticamente aggravato dai continui tagli all’università, alla ricerca, alla scuola, all’informazione, all’editoria, alla cultura, al cinema, agli archivi, ai musei, al patrimonio culturale, artistico e ambientale.

Una politica lungimirante dovrebbe investire proprio su questi settori, affinché il Paese trovi all’uscita dalla crisi le condizioni di uno sviluppo migliore rispetto a quello perseguito in precedenza. Non vogliamo rassegnarci al pessimismo e al disincanto irresponsabile che viene predicato con fare paternalistico e spesso interessato: non lo accettiamo per noi ma soprattutto non lo accetteremo per i nostri figli!

Chiediamo che si affronti con decisione la “questione generazionale” che sta maturando, forse ancora inconsapevolmente e silenziosamente, nel Paese.

Il Futuro è dei giovani e del lavoro. Diritti e più democrazia, cosi’ recita lo slogan della manifestazione che la Cgil ha convocato per il prossimo 27 Novembre.

Chiediamo una riforma degli ammortizzatori sociali che sappia rispondere ai cambiamenti del mercato del lavoro e alle trasformazioni della società italiana.

Chiediamo misure immediate per contrastare il precariato e la disoccupazione giovanile.

Chiediamo che la flessibilità non sia sinonimo di precarietà e solitudine del lavoratore ma sia accompagnata da misure di regolazione e di protezione sociale.

Affrontare di petto la questione generazione oggi significa dare una speranza e un futuro al nostro paese. Occorre una decisa politica dello sviluppo che sposti risorse dalle rendite agli investimenti produttivi per un modello economico innovativo e sostenibile; occorre dare diritti e tutele a tutto il mondo del lavoro, a prescindere dalla tipologia d’impiego;

Chiediamo che il Sindacato allarghi la propria base di rappresentanza a tutto il mondo del lavoro, estendendo la contrattazione collettiva alle forme di lavoro non subordinato, chiediamo al Sindacato di promuovere nuove politiche sociali che favoriscano una maggiore autonomia e mobilita’ delle persone, a partire dalle nuove generazioni.

E’ un impegno rivolto al futuro, che potrà essere onorato solo se la nostra generazione contribuirà direttamente ad una nuova stagione di mobilitazione e di conquiste sociali.

Troppo spesso, negli ultimi anni, abbiamo commesso l’errore di cercare risposte individuali a problemi collettivi. Ma ormai si é infranta per sempre l’illusione della salvezza individuale: senza un’azione collettiva e diretta dei giovani, anche in presenza di una nuova attenzione delle organizzazioni sociali, non si produrranno i necessari profondi cambiamenti di cui ha bisogno la società italiana.

Per questo, il 27 novembre, saremo affianco ad una Cgil che vorremmo sempre al nostro fianco,  occuperemo lo spazio pubblico, per affermare attraverso la nostra libera partecipazione la soggettività di una generazione che non fugge e non diserta, ma che anzi vuole essere protagonista di un nuovo patto sociale tra le generazioni e di una nuova stagione per l’Italia.


Promotori:

Salvo Barrano, 34 anni, archeologo free-lance

Martina Di Simplicio, 32 anni, psichiatra, dottoranda di ricerca presso l’Universita’ di Oxford

Emanuele Toscano, 34 anni, e’ ricercatore a tempo determinato in Sociologia all’Universita’ La Sapienza di Roma

Mattia Toaldo, 32 anni, e’ uno degli autori di Italia2013 nonché assegnista di ricerca in Scienze Politiche all’Universita’ di Roma III

Peppe Provenzano, 28 anni, ricercatore presso lo Svimez


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Il valore della cultura e la cultura del valore

L’iniziativa di protesta di venerdì 12 novembre “Porte chiuse luci accese sulla cultura” è un’occasione preziosa per ragionare su uno dei più grandi equivoci che il centro destra e il governo Berlusconi stanno cercando di imporre al paese. Si voglio spacciare i tagli alla cultura come un’operazione che elimina il superfluo per concentrare le risorse e le attenzioni su altro. Non è così. E non solo perché la fruizione culturale “ci piace” ma perché rappresenta molto ma molto di più per l’economia del paese e per la sua tenuta sociale.

Lo sciopero del 12 è il punto alto di arrivo di molte manifestazioni particolari di queste ultime settimane, ma per volti versi rappresenta anche un punto di partenza per ragionare su un tema cruciale per la crescita del nostro paese. A che serve la cultura?

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Uccidere il cinema italiano?

Chi sono quelli che nei giorni scorsi hanno prima occupato la casa del Cinema e poi invaso il tappeto rosso della Festa del Cinema di Roma? Sono autori, attori, sceneggiatori, persone che lavorano ai film. Solo una parte delle 250mila donne e uomini che rischiano di perdere il lavoro che hanno nell’industria cinematografica. Ecco un video che spiega le loro ragioni e perché vale la pena di ascoltarle. Non è in gioco solo un’industria (con più addetti e meno assistita della Fiat!) ma anche la costruzione di identità e memoria per il nostro Paese. Qui il loro sito.

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Essere maschi

È una storia di oppressione, quella delle culture e delle istituzioni patriarcali, non solo nei confronti delle donne, ma anche degli uomini, sebbene dagli uomini e per gli uomini sia stata scritta; storia di una differenza che per imporsi ha dovuto celarsi, dissimularsi, dimenticarsi. Questa la tesi di fondo del libro di Stefano Ciccone. ‘Essere maschi’ è un diktat dai costi molto alti e il volto nascosto del dominio si svela infine come «miseria» dell’esperienza. Continua a leggere

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